Indenni dalla Crisi: l'esempio delle BCC - Mercato creditizio e finanziario - CSSPD - Centro Studi Sociali Pietro Desiderato


Indenni dalla Crisi: l'esempio delle BCC

Negli ultimi anni “ha prevalso la teoria della finanza sulla teoria della banca", questo è uno dei motivi per cui le banche di credito cooperativo sono riuscite a sopportare e superare meglio la crisi.  Sintesi dell'incontro  "Credito cooperativo, trasparenza e sviluppo sostenibile".
 
 
 
Negli ultimi anni “ha prevalso la teoria della finanza sulla teoria della banca”. E’ il giudizio secco che ha dato Giovanni Ferri, professore di Economia dell’Università di Bari a conclusione dell’incontro su “Credito cooperativo, trasparenza e sviluppo sostenibile”, tenutosi nel corso del Festival dell'Economia di Trento.
 
Organizzato da EURICSE, è stata l’occasione per approfondire insieme a Silvio Goglio (professore di Economia politica dell’Università di Trento) e Maria Lucia Stefani (Banca d’Italia, filiale di Trento) i motivi che hanno portato le banche di credito cooperativo a sopportare e superare la crisi.  
 
 
Perché è utile parlare oggi di credito cooperativo? A seguito del tracollo finanziario, il rapporto fiduciario fra banche e clienti ha subito un forte contraccolpo, aumentando incredibilmente la diffidenza verso la finanza e verso le banche stesse. Ciò è stato conseguenza dell’asimmetria informativa alla base della crisi, del vizio di comunicazione interbancaria che ha portato alla diffusione dei titoli tossici. Tuttavia, se da un lato il tracollo delle grandi banche ha portato alla crisi economica, dall’altro ha evidenziato quelli che sono i modelli possibili per superarla: modelli basati su trasparenza e carattere etico delle banche. In altri termini le banche di credito cooperativo. Ma se da in lato questi istituti, contrariamente alle grandi banche, hanno saputo passare attraverso la crisi in modo quasi indolore, qual è il futuro che si prospetta loro? Le BCC non solo hanno retto l’urto della crisi, ma sono anche cresciute, raccogliendo il credito ritirato dalle grandi banche. Non sono aumentate di numero bensì di dimensioni, arrivando ad estendersi anche al di fuori del proprio territorio e lasciandosi tentare dalla strategia degli utili: questa prospettiva delinea quindi dei rischi da “feedback negativo” alla crescita delle BCC.
 
Il Professor Goglio nel corso della presentazione ha individuato diverse spie che portano allo “snaturamento delle BCC” riferibili alla sensazione dei soci di essere spossessati della propria banca: in primo luogo “il rischio di parlare solo di tassi e guadagni” e di svilire l’importanza della partecipazione dei soci al di là delle assemblee; successivamente il crescente contrasto fra soci e clienti, dal momento che i secondi sono guidati solo dalle esigenze di mercato e non, ad esempio, di sviluppo del territorio; in terzo luogo la sofisticazione del management che allontana la gestione bancaria dalla volontà del socio provocando “opacità informativa”; infine la crescente concorrenza fra BCC stesse nel momento in cui escono dal proprio territorio per allargare la propria influenza sul mercato in una logica non di sviluppo ma di potere. Dato che questi elementi minano alla base la solidarietà cooperativa e che “questi problemi sono insiti nella crescita delle banche di credito cooperativo, esiste una soglia oltre la quale una BCC si snatura al punto che non possiamo più parlare di credito cooperativo?”. A quel punto infatti si parlerebbe di piccole banche popolari o di casse di risparmio, dove la componente etico-sociale non sarebbe più prioritaria e di cui farebbero le spese soprattutto gli esclusi, cioè giovani e PMI.
 
Maria Lucia Stefani ha introdotto la risposta del professor Ferri ricostruendo le fasi che hanno portato le BCC dall’inizio degli anni ’90 fino ad oggi, fornendo un quadro generale in cui svolgere ulteriormente il discorso. In Italia al momento su 790 istituti bancari circa la metà è una banca di credito cooperativo; dal 1993 il numero si è dimezzato a seguito di aggregazioni e fusioni, riducendo il numero di istituti ma aumentando per ognuno il numero medio di sportelli (da 1 negli anni Ottanta ai 9 attuali). Nate in contesti rurali (benchè poche abbiano mantenuto questo termine nella propria ragione sociale) oggi sono prevalentemente istituti urbani, rivolti ai Comuni medio-piccoli. La maggior concentrazione è in Trentino (quasi la metà del totale degli istituti di credito sul territorio) e più in generale nel Nord-Est. Pesano intorno al 7,5% in termini di quota di mercato, un dato da non leggere però con troppa superficialità: a seguito della aggregazione delle grandi banche negli odierni grandi istituti, le BCC sono cresciute giocando sulle debolezze che le aggregazioni comportavano (in particolare aumento della burocrazia interna e attenzione maggiore per i grandi azionisti).
 
Lungi dall’essere una sbandata, l’affidamento al credito cooperativo ha permesso dal 2006 una resistenza maggiore alla crisi: la minor internazionalizzazione, la minor speculazione, le ripercussioni sul territorio in termini di sviluppo hanno evitato che, a differenza delle grandi banche, l’erogazione di credito diventasse negativa (secondo la relazione del governatore Draghi il dato si aggira intorno al +5%). La composizione del prestito è prevalentemente divisa su famiglie e società con meno di 20 dipendenti (rispettivamente il 32 e il 19%), mentre dal 1993 la quota verso le società con più di 20 dipendenti è aumentata dal 29 al 41% del totale. Il dato indica come evidentemente si tratti di un sistema vincente, che valorizza e intensifica l’interesse del socio: fintanto che questa componente viene mantenuta, il sistema cooperativo può dirsi solido”.Ferri ha concluso chiedendosi: “Che cosa non ha funzionato nelle logiche interbancarie negli ultimi decenni e quali sono le responsabilità degli economisti?” Negli ultimi vent’anni è stata prevalente la tendenza all’omologazione del modello societario, con una predilezione pressoché univoca del modello SpA. Ciò portò al passaggio allo status di società per azioni nei primi anni Novanta delle banche pubbliche e successivamente delle banche popolari. Fortunatamente il mantenimento dell’obiettivo mutualistico ha risparmiato da questa tendenza le banche di credito cooperativo.
 
La crisi ha dunque fornito un grande insegnamento: “la biodiversità del mondo bancario, ma anche del mondo finanziario, è una ricchezza imprescindibile. Ogni forma di modello unico è un pericolo”. “Servono molti modelli, dato che il fondamentalismo del mercato-perfetto senza asimmetrie informative” non vale davanti alla complessità della società. Davanti all’omologazione in SpA l’interesse era rivolto agli interessi di pochi, con una concentrazione nelle mani dei manager del potere sul capitale. Al contrario nelle BCC lo scopo non è la massimalizzazione degli utili a favore degli azionisti, quindi il controllo di proprietari e soci sui manager è decisamente maggiore, limitando la speculazione. Sparisce così il conflitto di interessi fra depositari, proprietari e manager. E’ quindi chiaro come, davanti alla crisi, questo modello non abbia provocato asimmetrie e centri di potere, dimostrando in un certo senso la validità del modello cooperativo: “l’aumento sistematico della capitalizzazione, ha aggiunto Ferri, non scongiura affatto i rischi: vanno piuttosto valorizzati i modelli societari”. Uno snaturamento delle BCC, ad esempio a seguito del distacco dal territorio che si verifica al momento della crescita della banca, porterebbe alla fine di questo modello virtuoso e l’adeguamento alla religione del profitto. Come evitare di superare quindi la “soglia” di cui parlava Goglio? “E’ inevitabile, risponde Ferri, che le istituzioni che hanno aiutato a superare la crisi cambino, e noi non possiamo farci assolutamente nulla”, ma non c’è dubbio che questo snaturamento vada evitato sd ogni costo, ad esempio non perdendo di vista le esigenze di fondo: al centro va posta la filosofia etico sociale e l’intervento a favore degli esclusi. Tuttavia la creazione del credito cooperativo ha richiesto 130 anni, non la si può sistemare in poco tempo. Possibili procedimenti potrebbero essere delle verifiche da fare alle banche chiedendo di esplicitare gli scopi e gli interessi dei piani finanziari, oppure l’adozione di “disincentivi morbidi” ossia l’aumento dell’onere fiscale qualora la banca diventasse esclusiva dei clienti e non più dei soci. Ma è innegabile che le fusioni selvagge degli ultimi anni, con le conseguenti confusioni di territorio, siano un male. A riguardo, conclude Ferri, “quando parlai a Tommaso Padoa Schioppa del problema, lui lo fece presente pubblicamente. Per un po’ la situazione si ridusse, salvo poi riprendersi entro poco. Vanno rivalutate e rimesse al centro l’etica e le responsabilità”.