Ventata di ottimismo da parte del Censis nel suo 42° Rapporto sulla
situazione sociale del paese rilasciato il 5 dicembre a Roma presso il
CNEL. Un Italia colpita dalla crisi ma pronta ad una seconda
metamorfosi grazie ad un adattamento innovativo della società.
Roma, 5 dicembre 2008 - Alla crisi ci crediamo e non ci crediamo. Per
alcuni si sfiammerà presto, per altri il tracollo durerà a lungo.
Questa diversa percezione riflette l'assenza di una consapevolezza
collettiva, a conferma del fatto che restiamo una società
«mucillagine». Come affermato lo scorso anno, il contesto sociale è
condizionato da una soggettività spinta dei singoli, senza connessioni
fra loro e senza tensione a obiettivi e impegni comuni. Questa
regressione antropologica, con i suoi pericolosi effetti di fragilità
sociale, è visibile nel primato delle emozioni, nella tendenza a
ricercarne sempre di nuove e più forti, al punto che «la violenza o lo
stravolgimento psichico si illudono di avere un bagliore irripetibile
di eternità, mentre nei fatti sono solo passi nel nulla».
È stato l'anno delle paure. Su questa base si sono moltiplicate piccole
e grandi paure (i rom, le rapine, la microcriminalità di strada, gli
incidenti provocati da giovani alla guida ubriachi o drogati, il
bullismo, il lavoro che manca o è precario, la perdita del potere
d'acquisto, la riduzione dei consumi, le rate del mutuo). In un anno
elettorale, la politica ha trovato vantaggioso enfatizzare le paure
collettive e le promesse di securizzazione (dai militari per le strade
alla social card per i meno abbienti), con ciò finendo per generare una
più profonda insicurezza, una ulteriore sensazione di fragilità.
La crisi finanziaria internazionale: la «segnatura» c'è stata. La crisi
ci ha segnato, ed è verosimile attendersi per il prossimo anno
ulteriori fasi di flessione. Ma ha determinato un salutare allarme
collettivo. Si tratta ora di vedere se il corpo sociale coglierà la
sfida, se si produrrà una reazione vitale per recuperare la spinta in
avanti, sebbene siano in agguato le «italiche tentazioni alla rimozione
dei fenomeni, alla derubricazione degli eventi, all'indulgente e
rassicurante conferma della solidità di fondo del sistema».
Non basta una reazione puramente adattiva. Rispetto a una crisi che ci
segna in profondità, sarebbe deleterio adagiarsi sulla speranza che
tutto si risolverà nella dinamica della lunga durata, grazie alle
furbizie adattive che ci contraddistinguono da decenni e secoli.
Rischieremmo che «la lunga durata diventi luogo del rattrappimento e
della rinuncia ad un ulteriore sviluppo». Rischieremmo: l'appiattimento
su parole d'ordine non più universalmente condivise (il mercato,
l'occidentalizzazione, la globalizzazione, l'Europa allargata); di
continuare a vivere individualisticamente; l'acutizzarsi di un disagio
sociale legato all'esaurimento delle sicurezze di base garantite da un
welfare oggi in crisi e dalle attuali prospettive o paure di
impoverimento; gli effetti ulteriori degli squilibri antichi della
nostra società (il sottosviluppo meridionale, l'inefficienza
dell'amministrazione pubblica, il drammatico potere della criminalità
organizzata). Rischieremmo forse un collasso per implosione su noi
stessi, per cui non possiamo lasciar cadere la sfida, l'allarme, la
paura che la contingenza attuale ci propone.
Verso una seconda metamorfosi. Le difficoltà che abbiamo di fronte
possono avviare processi di complesso cambiamento. Attraverso un
adattamento innovativo (exaptation, per usare un termine mutuato dalla
biologia), cioè non automatico ma reso vitale e incisivo da fattori
esogeni e leve di trasformazione, possiamo spingerci verso una seconda
metamorfosi (dopo quella degli anni fra il '45 e il '75) che forse è
già silenziosamente in marcia. La nostra seconda metamorfosi sarà il
risultato della combinazione dei «caratteri antichi della società» con
i processi che fanno da induttori di cambiamento. Tra questi vi sono:
la presenza e il ruolo degli immigrati, con la loro vitalità
demografica e la moltiplicazione emulativa di spiriti imprenditoriali;
l'azione delle minoranze vitali già indicate lo scorso anno,
specialmente dei player nell'economia internazionale; la crescita
ulteriore della componente competitiva del territorio (dopo e oltre i
distretti e i borghi, con le nuove mega conurbazioni urbane); la
propensione a una temperata gestione dei consumi e dei comportamenti;
il passaggio dall'economia mista pubblico-privata a un insieme
oligarchico di soggetti economici (fondazioni, gruppi bancari,
utilities); l'innovazione degli orientamenti geopolitici, con la minore
dominanza occidentale e la crescente attenzione verso le direttrici
orientali e meridionali.
Mercato largo, economia aperta, policentrismo decisionale. Le classi
dirigenti (non solo quella politica) tendono invece ad automatismi di
segno opposto: accorciano i raggi delle decisioni, le riservano a sfere
di responsabilità molto ristrette, le rattrappiscono al breve termine,
se non addirittura al presente. «In poche stanze si possono prendere
provvedimenti e iniziative planetarie, ma poi la realtà segue opzioni,
comportamenti, paure di tipo diffuso, su cui sarebbe deleterio avviare
una rincorsa punto per punto (una Cig qua, una rottamazione là) che non
riuscirà mai a far recuperare una dinamica fatta da tanti soggetti,
l'unica dimensione di cui abbiamo bisogno per uscire collettivamente
dalla crisi». Per la società italiana resta l'imperativo: «mercato
largo, economia aperta, policentrismo decisionale».
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