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Rassegna Stampa Estera
03/12/2010

44° Rapporto sulla situazione sociale del Paese

Il 3 dicembre, presso la sede del Cnel in  Viale David Lubin - Roma, è stato presentato l'annuale Rapporto sulla situazione socio-economica del Paese, con l'analisi dei reali processi di trasformazione della società italiana.
 
 
 
44° Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2010
 
 
 
Giunto alla 44ª edizione, il Rapporto Censis prosegue l’analisi e l’interpretazione dei più significativi fenomeni socio-economici del Paese, individuando i reali processi di trasformazione della società italiana. Su tali temi si soffermano le «Considerazioni generali» che introducono il Rapporto.
 
Nella seconda parte, «La società italiana al 2010», vengono affrontati i temi di maggiore interesse emersi nel corso dell’anno. Nella terza e quarta parte si presentano le analisi per settori: la formazione, il lavoro, il welfare e la sanità, il territorio e le reti, i soggetti economici, i media e la comunicazione, il governo pubblico, la sicurezza e la cittadinanza.
 
 

SINTESI DELLO STUDIO:

 

Il capitolo «Lavoro, professionalità, rappresentanze»

 
Allarme giovani.
La crisi ha scaricato i suoi effetti su una sola componente del mercato del lavoro, quella giovanile. Nel 2009 tra gli occupati di 15-34 anni si sono persi circa 485.000 posti di lavoro (-6,8%) e nei primi due trimestri del 2010 se ne sono bruciati quasi altri 400.000 (-5,9%). Di contro, se si esclude la fascia immediatamente successiva, dei 35-44enni, dove pure si è registrato un decremento del livello di occupazione (-1,1% tra il 2008 e il 2009 e -0,7% nel 2010), in tutti gli altri segmenti generazionali, non solo l’occupazione ha tenuto, ma è risultata addirittura in crescita: è aumentata di 85.000 unità tra i 45-54enni (+1,4% tra il 2008 e il 2009) e di oltre 100.000 tra gli over 55 (+3,7%). I primi segnali relativi al 2010 (+2,4% per i primi, +3,6% per i secondi) sembrano andare nella stessa direzione. Tra le ragioni che hanno visto così penalizzata la componente giovanile del lavoro vi è il loro maggiore coinvolgimento nei fenomeni di flessibilità: tra il 2008 e il 2009, a fronte della sostanziale tenuta del lavoro a tempo indeterminato, si è registrata una fortissima contrazione sia del lavoro a progetto (-14,9%), sia del lavoro temporaneo (-7,3%).
 
Lavoro in proprio cercasi.
Nell’ultimo decennio, a fronte di una crescita del lavoro dipendente di 2.406.000 unità (+16,2% tra il 1999 e il 2009), i lavoratori autonomi sono diminuiti di circa 200.000 unità (-3,8%), portando la loro incidenza sul totale degli occupati dal 26,6% al 24,5%. Tra le diverse tipologie di lavoro autonomo, ad essere più in crisi è quella imprenditoriale. Tra il 2004 e il 2009, il numero di imprenditori è passato da 400.000 circa a 260.000, cioè 140.000 in meno (-35,1%). Il lavoro libero professionale ha registrato una piccola crescita (+2,2%), mentre i lavoratori in proprio (piccoli artigiani e commercianti) hanno visto indebolite le loro fila di oltre 90.000 occupati (-2,5%). Sono soprattutto i giovani a cimentarsi di meno nell’attività in proprio. I lavoratori autonomi con meno di 35 anni sono passati da 1.480.000 a 1.070.000, 400.000 in meno (-27,8%), mettendo così in discussione una delle più consolidate certezze del sistema di sviluppo italiano.
 
L’anno zero della contrattazione.
La maggioranza degli italiani sembra ormai convinta che la crescita di competitività di cui il sistema-Paese ha bisogno non possa avvenire senza un surplus di impegno da parte di tutti. Circa l’80% si dichiara d’accordo sul fatto che la retribuzione dei lavoratori dovrebbe essere collegata per una quota significativa alla produttività individuale. Una delle strade da percorrere è il rilancio della contrattazione decentrata. Nell’ultimo decennio, tra le aziende industriali con oltre 20 addetti il ricorso alla contrattazione di secondo livello è andato progressivamente diminuendo: se alla fine degli anni ’90 il 43,4% delle aziende aveva sottoscritto nel corso del decennio (1990-1998) almeno un contratto integrativo aziendale, coinvolgendo il 64,1% degli addetti, nel 2008 la percentuale è scesa al 30,6% e quella degli occupati al 54,4%.
 
Il nodo del lavoro terziario.
Nell’ultimo decennio il terziario è stato, assieme alle costruzioni, il settore che più ha contribuito all’aumento della forza occupazionale del Paese, con la creazione di 2,2 milioni di nuovi posti di lavoro tra il 1999 e il 2009. Si sono così colmate le perdite registrate nell’agricoltura (-150.000 unità circa) e nell’industria         (-280.000 lavoratori). La capacità di crescita del terziario si è andata però progressivamente esaurendo: il contributo alla creazione di nuova occupazione è passato da 1,3 milioni nel quinquennio 1999-2004 a 890.000 nel quinquennio 2004-2009. L’andamento negativo dell’ultimo anno (-0,8% tra il 2008 e il 2009), non controbilanciato da una ripresa nell’anno in corso (al secondo trimestre del 2010 i dati evidenziano una tendenziale stagnazione), sembra confermare i segnali già emersi. Le dinamiche interne al settore terziario sono tuttavia molto differenziate. Il mondo dei servizi sociali alla persona e alla famiglia è un’area in forte crescita occupazionale (+36,3% tra il 2004 e il 2009). Il terziario alle imprese è un comparto in consolidamento, registrando una significativa crescita del lavoro (+9,9%). Altri comparti stanno vivendo una vera e propria fase di metamorfosi, con uno stravolgimento degli assetti organizzativi, come il turismo (+12,7% di occupati) e la grande distribuzione (+14%). All’insegna dell’immobilismo altri comparti come il credito, le assicurazioni e i trasporti, dove non si riscontrano apprezzabili fenomeni sul versante del lavoro. In forte ridimensionamento occupazionale è il commercio al dettaglio (-6,1% di occupati) e la Pubblica Amministrazione (-2,8%).
 
La tenace resistenza delle donne.
L’occupazione femminile sembra resistere meglio di quella maschile. Tra il 2008 e il 2009 sono stati gli uomini a registrare i maggiori contraccolpi della crisi, con una perdita secca di 274.000 occupati (-2%). Anche le donne hanno visto ridurre la propria partecipazione al lavoro, ma in misura meno drammatica: sono stati bruciati 105.000 posti di lavoro femminili, con un calo netto dell’1,1%. Una tendenza che sembra confermata anche nel 2010, considerato che nei primi due trimestri dell’anno, a fronte di un’ulteriore contrazione dell’occupazione maschile dell’1,1%, quella femminile registra un calo solo dello 0,5%.
 
Disoccupazione, per 62% italiani tutele insufficienti
“L’efficacia degli ammortizzatori di tamponamento dell’emergenza reddituale legata alla crisi occupazionale non attenua il fatto che la crisi sta ampliando, al di là del breve periodo, la platea dei soggetti del disagio sociale. Ben il 91 per cento dei disoccupati di famiglie monoreddito in Italia sono da considerarsi a rischio povertà, contro il 32 per cento del Belgio, il 55 per cento della Spagna e il 75 per cento del Regno Unito”. È quanto emerge dal Rapporto sulla situazione sociale del paese 2010 elaborato dal Censis. “In tale quadro assume rilievo la valutazione che viene espressa dai cittadini riguardo agli strumenti di tutela e supporto per i disoccupati. Il 62 per cento degli italiani esprime un giudizio negativo su questa tipologia di strumenti di tutela, quota che risulta nettamente superiore al dato medio europeo, pari al 45 per cento, e lontana dalle valutazioni espresse dai cittadini di numerosi altri Paesi come la Francia, dove il giudizio negativo è espresso dal 29 per cento dei cittadini, il Regno Unito (28 per cento), la Germania (39 per cento) e i Paesi Bassi (13 per cento). Quello che colpisce è che il 44 per cento degli intervistati italiani ritiene che negli ultimi cinque anni la situazione sia peggiorata, dato superiore a quello medio europeo (38 per cento). Il dato italiano è più alto di quello della Francia, dove è il 39 per cento dei cittadini a ritenere che gli strumenti di tutela dei disoccupati siano peggiorati negli ultimi cinque anni, e a quelli dei Paesi Bassi (30 per cento) e del Regno Unito (27 per cento)”.
“Anche sullo specifico terreno della lotta alla povertà le valutazioni degli italiani non sono positive. Richiesti di indicare l’impatto che secondo loro stanno avendo le politiche e gli interventi finalizzati a migliorare la condizione dei poveri in Italia, ben il 59 per cento dichiara che non stanno avendo un particolare impatto, il 21 per cento sostiene che addirittura stanno peggiorando le cose e solo il 10 per cento parla di un impatto positivo. Nella media europea il 64 per cento dei cittadini ritiene neutro l’impatto delle politiche contro la povertà, il 10 per cento negativo e il 18 per cento positivo. Molto più alte le quote di cittadini che valutano positivamente gli impatti delle politiche contro la povertà in Svezia (45 per cento), Paesi Bassi (26 per cento), Regno Unito (18 per cento) e Germania (15 per cento)”.
 
Nei giovani poca fiducia e interesse per il lavoro
Poco fiduciosi rispetto alla possibilità di trovare un’occupazione, ma forse anche poco disponibili a trovarne una a qualsiasi condizione, i giovani, che più hanno avvertito sulla propria pelle gli effetti della crisi (nei primi due trimestri del 2010 si è registrato un calo degli occupati tra 15 e 34 anni del 5,9 per cento, a fronte di un calo medio dello 0,9 per cento), sembrano avere, almeno per una buona parte, definitivamente archiviato la “pratica lavoro”. Lo si legge nel 44esimo Rapporto annuale del Censis sulla condizione sociale del Paese. Sono più di 2,242 milioni gli italiani tra 15 e 34 anni che non sono impegnati in un’attività di studio, non lavorano, non lo cercano e soprattutto non sembrano essere interessati a trovarlo. Un universo ampio, pari al 16,3 per cento del totale, il cui peso appare ancora più consistente nella fascia d’età tra i 25 e i 34 anni (19,2 per cento). In prevalenza donne, in possesso di titoli di studio molto bassi (il 51,5 per cento ha al massimo la licenza media), ben il 60,3 per cento risiede al Sud del Paese. Se si escludono quanti, soprattutto donne, stanno a casa per prendersi cura dei figli (il 20,6 per cento del totale), la parte restante spiega la propria scelta di non lavoro né studio trincerandosi dietro un mix perverso di sfiducia e inerzia: il 20,9 per cento non cerca lavoro perché sa che non lo troverà, il 13,1 per cento perché sta aspettando delle risposte, l’11 per cento perché frequenta temporaneamente qualche corso, il 5,2 per cento perché non gli interessa e non ne ha bisogno, il 10,9 per cento chiama in causa altri motivi, non meglio specificati, ma estranei comunque a obblighi familiari (come, ad esempio, prendersi cura di genitori o di altri parenti) o legati all’istruzione.
Insomma, spiega ancora il Censis, quale che sia la causa, una parte significativa delle risorse produttive del sistema sembra chiamarsi fuori dal gioco, anche se non definitivamente, derubricando quella che un tempo rappresentava una fase quasi obbligata di passaggio all’età matura, per molti versi un dovere sociale vero e proprio. Ma anche chi sceglie di continuare a giocare la propria partita, di volere un lavoro, perché magari non ha una famiglia alle spalle in grado di mantenerlo o non ha rinunciato alla speranza di trovarlo, non sembra disposto a volerlo a qualsiasi condizione. È indicativo che, interpellati a settembre, più della metà degli italiani (il 55,5 per cento) pensa che i giovani non trovano lavoro perché non vogliono accettare occupazioni faticose e di poco prestigio: una valutazione che potrebbe apparire un po’ ingenerosa e forse stereotipata, se non fosse che ad esserne più convinti sono proprio i più giovani, tra i quali la percentuale sale al 57,8 per cento. trascurare come facciano fatica ad entrare innovazioni di carattere organizzativo e retributivo, che tanto impulso potrebbero dare alla ripresa e alla crescita. L’Italia è il Paese con il più basso ricorso a orari flessibili nell’ambito dell’organizzazione produttiva: solo l’11 per cento delle aziende con più di 10 addetti utilizza turni di notte, solo il 14 per cento fa ricorso al lavoro di domenica. Sempre al di sotto della media, ma più vicino agli altri Paesi, è il lavoro al sabato, praticato dal 38 per cento delle aziende, contro il 40 per cento della media europea. Al tempo stesso siamo il Paese dove è più bassa la percentuale di imprese che adottano modelli di partecipazione dei lavoratori agli utili dell’azienda (lo fa solo il 3 per cento contro una media europea del 14 per cento).
 
 
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